Salmi 119:71
Quando, a ottobre scorso, il primario del reparto di oncoematologia, con al seguito un discreto codazzo di praticanti, è venuto nella mia stanza e mi ha detto a bruciapelo: «Signor Ulfo, lei ha un linfoma» aggiungendo, con tono sereno e professionale, poche parole circa il prosieguo del trattamento, il primo pensiero che ha attraversato la mia mente è stato: «Eccoci qua, siamo al capolinea!».
Devo dire di non essere stato colto né da paura né da sconforto, anzi, forse, a pensarci bene, era come se me lo aspettassi. Ricordo di avere semplicemente provato una sensazione di “sospensione”, come se il tempo e lo spazio, improvvisamente, si dilatassero cambiando forma e dimensione.
Il mio compagno di stanza, un simpatico signore bagherese ultraottantenne con qualche problema d’udito, ma curioso, quando, all’uscita del medico, mi chiese cosa avesse detto e sentì pronunciare dalla mia bocca quella parola, storse il muso (come può farlo solo un siciliano!) e mi chiese:
– «Quanti anni hai?»
– «Cinquantasei»
– «Caspita, sei giovane… ma non ti preoccupare. Non pensare tanto neanche a quello che dicono i medici. A mia moglie avevano dato un anno di vita. Ha vissuto più di vent’anni dopo la diagnosi del tumore…».
Poi aggiunse: «Chi dona la vita e chi la toglie è u Signuri!»
Così, la conversazione si spostò su Dio, sul Vangelo di Gesù Cristo e sulla fede che dobbiamo riporre nella sua persona per essere giustificati dai nostri peccati.
Questa è stata la prima consolazione nella mia afflizione.
Nelle ore e nei giorni successivi, quel senso di sospensione perdurò. Tornai a casa. Bisognava parlare con Giovanna, con i figli, con mia madre… e bisognava dirlo alla chiesa. Non ho cercato nemmeno per un momento di reprimere i miei sentimenti o di “farmi forza”. Quando non sai a cosa vai incontro, può succedere di tutto. Più volte mi sono commosso. Ho pregato. Ho rimesso la mia vita nelle mani del mio fedele Creatore, Redentore e Signore.
Vedere tua moglie piangere, ti spezza il cuore. Solo un paio di mesi prima eravamo tornati a Ustica per celebrare il nostro trentesimo anniversario di matrimonio. Erano stati due giorni e mezzo bellissimi. Quell’isola ha avuto su di noi un effetto analgesico ed esilarante! Abbiamo riso e scherzato come due ragazzini. Ci siamo resi conto che nei trent’anni trascorsi dalla prima visita a quel posto non eravamo soltanto invecchiati… ma che tutto quel tempo aveva permesso al nostro amore e al nostro matrimonio, seppure provati dagli anni e dalle vicissitudini, di maturare e divenire adulti, solidi. Abbiamo riflettuto sul fatto che, grazie a Dio, nonostante i decenni trascorsi insieme non avevamo rimpianti né recriminazioni e abbiamo pregato, chiedendo altri trent’anni da spendere insieme.
Li avremo?
Nei giorni successivi al ricovero ho cercato di informarmi sul genere di linfoma che si sospettava, ho fatto qualche telefonata e, in attesa dei risultati della biopsia e dell’inizio della terapia, il senso di sospensione perdurava. Ho seguito via internet il servizio funebre di un pastore conosciuto anni fa, morto di cancro al pancreas nel giro di pochi mesi dalla diagnosi. L’esempio e la vita di quell’uomo mi hanno inspirato profondamente. Durante il servizio si è cantato Behold our God, un inno meraviglioso. Prendo carta e penna e lo traduco in meno di mezz’ora. Non mi era mai capitato di fare così presto e facilmente. In quei giorni traduco anche un altro inno che mi sarebbe piaciuto poter cantare in italiano fin da quando avevo saputo che Spurgeon volle che fosse cantato al suo funerale: The sands of time are sinking. Inoltre, sempre in quei giorni, trovo grande conforto e pace nel leggere (e tradurre) un breve articolo scritto da Spurgeon e originariamente apparso su The Sword and the Trowel, il titolo è Fuori combattimento. Perché? Che inizia così: «Le visite che ci fa la malattia sono misteriose. Quando Dio si sta compiacendo di usare un uomo per la sua gloria è strano che egli lo tolga di mezzo e sospenda la sua utilità. La cosa deve senz’altro essere giusta, ma la ragione per cui accade non la si trova in superficie».
Per questa ragione, scrivo solo adesso circa “l’afflizione subita”. D’altronde anche il salmista considera col “senno di poi” l’afflizione che l’aveva colto e solo a posteriori riesce a scorgerne “il bene”. Così è. Quanti sono quelli che imparano mentre sono ancora nella prova?
Devo dire che per me si è trattato di una esperienza del tutto nuova. Non nel senso che io non sia mai stato afflitto! Oh, no… se così fosse, sarebbe il caso di dubitare non solo della mia umanità, ma dell’autenticità della mia esperienza cristiana. «Nel mondo avrete tribolazione», ha detto Gesù. Mi riferisco, piuttosto, all’afflizione che deriva dal malessere fisico, da quella che dipende da una necessaria e inevitabile compressione della libertà, dal necessario cambio dei parametri della tua disponibilità e accessibilità. Dall’afflizione di un forzato e indesiderato “cambio di passo”. Quello era qualcosa di nuovo.
I mesi trascorsi lontano dal lavoro nella scuola, aspettando e preparandomi alla terapia che si ripeteva ogni quattro settimane; il tempo speso in un isolamento forzato e necessario, ma estremamente produttivo perché non mi sono mai sentito privato (se non per pochi giorni) delle energie e della lucidità per dedicarmi ai miei impegni ministeriali; il cambiamento del regime alimentare (questo del tutto volontario) e dell’aumento del tempo speso nell’attività fisica (allo scopo di sbarazzarmi di parecchi chili accumulati negli anni); la possibilità di stare di più a casa, con i miei, e l’attesa della “biopsia di controllo” che si sarebbe fatta a maggio, non sono stati né inutili né sprecati e, col passare delle settimane, anche quel senso di “sospensione” è andato via, lasciando che mi riallineassi progressivamente con la “normalità”.
Adesso posso dire quali sono stati alcuni dei beni ricevuti in questo tempo.
Il primo è l’esperienza della forza dell’ovvio. L’ovvio, in questo caso è che “sono mortale”. Chi lo negherebbe mai? Ma, una cosa è affermarlo, altra cosa è sentirlo sulla propria pelle. Fare i conti con una malattia oncologica, seppure la prognosi può far ben sperare sia per la natura del linfoma, sia per il trattamento che, per quanto serio, non è “devastante”, vi assicuro che non è cosa semplice. La tua morte cessa di essere “una realtà certa, ma futura” e ne senti il gelido alito che ti accarezza e ti fa rabbrividire. Impari a considerarla una compagna di viaggio. A volte ti si para dinanzi, altre volte ti si mette al fianco, ma è sempre là, come un’ombra che ti segue, non ti si stacca proprio più di dosso. Questa vicinanza, però, te la fa diventare familiare e l’effetto, almeno per me, è stato che, adesso, posso parlare della mia morte con maggiore libertà, a grandi e piccoli, e posso capire meglio quello che intendeva l’apostolo Paolo quando scriveva: «Ogni giorno sono esposto alla morte» (1 Co. 15:31).
Il secondo bene ricevuto è il senso liberazione per il fatto che il mio Dio non mi considera indispensabile e per la consapevolezza che sta preparando un giorno in cui, seppure porrà fine alla mia vita, saprà come fare in modo che quanto mi ha dato da compiere nel corso della mia esistenza non sia dissipato. La via più sicura verso la depressione spirituale e l’esaurimento è quella che ci fa coltivare dei pensieri del tutto falsi come quello di essere indispensabili, o come la convinzione che siamo noi a dover “tirare la carretta” e che tutto il lavoro che stiamo facendo riposi sulle nostre spalle. Seppure abbiamo dei tristi esempi e illustrazioni dalla storia della chiesa che la morte o la caduta di un servo di Dio hanno avuto effetti gravi sulle chiese, bisogna riconoscere che non esiste alcuna situazione irreparabile in cui la chiesa del Signore possa venirsi a trovare. La chiesa di Cristo non può essere distrutta, il suo popolo può essere chiamato a soffrire, ma non potrà essere sopraffatto. Uomini molto migliori di me sono morti più giovani di me e, seppure compianti, sono stati sostituiti. Il nostro contributo al progresso del Vangelo nel mondo e a quello dell’umanità è limitato tanto nel tempo quanto negli effetti. Quando Dio vuole mandare un diluvio, egli prepara un Noè, così come quando ci sarà un Golia a minacciare il suo popolo, sorgerà un Davide per abbatterlo, ma quando arriva il giorno in cui Noè e Davide devono essere raccolti con il loro padri… il patto divino rimane stabile ed essi saranno sostituiti egregiamente da altri che compiranno la volontà di Dio nella loro generazione. Potrebbe darsi che noi non li vediamo ancora, ma ci sono già e sono da qualche parte. Jonathan Edwards, quando, all’età di cinquantaquattro anni stava per morire, mentre coloro che erano al suo capezzale, credendolo privo di sensi, si rammaricavano per ciò che la sua assenza avrebbe comportato, con grande sorpresa di tutti, pronunziò le sue ultime parole, che furono: «Confidate in Dio e non ci sarà nulla da temere». Ecco, stanno così le cose.
Il terzo è che la qualità del nostro servizio a Dio conta molto di più della quantità. Meglio fare poco, ma bene, che tanto in modo approssimativo. Meglio essere giudicati fedeli da Dio che essere apprezzati e lodati dagli uomini. E, mentre ciò che gli uomini possono dire di noi dipende sempre da quello che a loro piace e da ciò che è visibile, misurabile e quantificabile in termini “oggettivi”, solo la fede è in grado di vedere l’invisibile e solo Dio conosce il cuore e le sue motivazioni. Il cristiano non deve attendere l’eternità per avere l’approvazione divina, egli possiede la testimonianza dello Spirito e la giustizia di Cristo che gli è imputata per mezzo della fede e, siccome si studia di mantenere una buona coscienza al cospetto di Dio e degli uomini, gode già del cielo mentre è ancora in terra. Noi possiamo davvero essere beati nel nostro operare, in qualunque circostanza. Possiamo godere santamente di tutti i beni che Dio ci concede, possiamo usarne con gratitudine e condividerli generosamente e possiamo essere certi che tutto ciò è ben noto e considerato dal nostro Dio. Non dovremmo avere alcuna “ansia da prestazione”. Facciamo il massimo, ben sapendo che i nostri sforzi maggiori non saranno mai abbastanza, ma che, nonostante questo, solo per la grazia di Dio ci sarà provveduta una larga entrata nel suo regno.
Il quarto è l’apprezzamento e il conforto che deriva dalle persone che ci amano, e mi riferisco in particolare alla mia famiglia, ai miei amici e alla mia chiesa. In questi mesi molti mi hanno chiamato e scritto. Anche persone che non sentivo da molti anni. Ovviamente mi ha fatto piacere, ma confesso che quello che mi ha dato il maggiore conforto è l’aver sentito e potuto misurare l’affetto di chi mi è sempre stato accanto negli anni in cui la mia salute non ha fatto nemmeno una piccola crepa e che, in questa prova, a volte con uno sguardo, altre volte con una parola, altre ancora con una dichiarazione di disponibilità e tantissime altre con delle preghiere fatte nel segreto, mi ha dimostrato il suo affetto sincero e disinteressato. Lo ringrazio per chi mi ha intimato: «Ehi, vedi di non morire!», per chi mi ha accompagnato a Palermo i giorni della terapia (e anche per chi si offerto di farlo!), ma ringrazio Dio anche per i moltissimi che non hanno detto niente, ma che hanno aspettato e sperato e pregato di poter sentire che tutto sarebbe passato. È un grande conforto quello di sapere che, pur non essendo il marito, il padre, l’amico o il pastore perfetto, eppure sono amato da mia moglie, dai miei figli, dai miei amici e dalla mia chiesa. Ho imparato che non basta pregare per le persone che amo, ma che se prego davvero per qualcuno perché lo amo nel Signore, proprio come faceva l’apostolo Paolo, devo dirglielo e devo manifestargli il mio amore e il mio interesse sinceri con atti concreti. Inoltre, ho capito che tutto ciò dev’essere fatto prima che mi giunga la notizia che quella persona si trova in pericolo di vita perché, se aspetto fino a quel momento per farmi sentire, rischio di offenderla piuttosto che confortarla. Ho imparato che ogni cristiano e, a maggior ragione, ogni pastore devono vincere le resistenze, l’orgoglio e l’ipocrisia del loro cuore che li trattiene dal mostrare apertamente l’amore e il riguardo verso il prossimo e che, se non lo fanno, peccano e si privano di grandi benedizioni. Ho imparato anche questo e prego di metterlo in pratica.
Ho imparato che, per quanto possiamo non avvertire alcun sintomo preoccupante, se vogliamo sopravvivere a lungo, dobbiamo essere vigilanti, fare la massima attenzione ai piccoli segnali che provengono dal nostro corpo e dalla nostra anima e tenere sotto controllo tutte le cause potenziali di male e di malattia. Quando ho scritto alla chiesa che dall’ultima biopsia è stata riscontrata una bassissima percentuale di infiltrato e che la mia malattia è stata classificata come “cronica”, una sorella – preoccupata – mi ha chiesto cosa significasse. La mia risposta è stata questa: «Per capirlo considera cosa significa essere peccatori e salvati. Il peccato non ti domina più, ma non è eradicato, è presente e deve essere tenuto sotto controllo, bisogna vigilare contro di esso per non esserne sopraffatti e confidare in Dio per essere preservati fino alla fine. Questa è la cronicità». E siccome ho avuto l’approvazione di un oncologo cristiano a questa spiegazione, penso che ciò possa giovare a ciascuno di noi, poiché, in un certo senso, siamo tutti malati cronici.
Uno dei libri più deliziosi di Thomas Watson ha per titolo Un cordiale divino. Si tratta di una serie di predicazioni su Romani 8:28 che è, probabilmente, uno dei versi più citati (spesso a sproposito), ma che è davvero di grande conforto per ogni cristiano. Watson, riflettendo sulla gloriosa verità che «Tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano Dio, i quali sono chiamati secondo il suo disegno», afferma che anche il “male dell’afflizione” opera in loro favore e dice: «La considerazione che nell’afflizione che si abbatte su noi c’è la mano di Dio, deve dare pace al cuore […]. Giobbe vide Dio nella sua afflizione e, pertanto, come osserva giustamente Agostino, non disse: “Dio ha dato e il diavolo ha tolto”, bensì: “Il Signore ha dato e il Signore ha tolto”». Ecco, ho imparato qualcosa anche della “matematica di Dio”: quando Dio fa delle sottrazioni, egli aggiunge e assomma benedizioni, moltiplica la sua grazia e divide in nostro amore idolatra per il mondo e il benessere, elevando al quadrato (e forse anche al cubo!) il nostro desiderio di essere riuniti a lui nella gloria del suo regno.
Su questa terra non smetteremo mai di essere afflitti e, fino a quando lo saremo, non smetteremo mai d’imparare.
Immagine in evidenza: Giobbe, dipinto di Léon Bonnat, 1880
Riflessione che fa trasparire una grande lucidità e saggezza. Traspare la non comune capacità di presentarti senza veli o paraventi (che ho sempre percepito e apprezzato durante le tue predicazioni – e non solo). Credo che molte cose da te scritte potrebbero servire da base per un messaggio dal tema “il significato della morte per un cristiano”. Grazie, Reno!!